Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 22 maggio 2018 - Ricorso n. 29923/13 - Causa Anna Maria Cristaldi contro l’Italia© Ministero della Giustizia, Dipartimento per gli affari di giustizia, traduzione eseguita dalla dott.ssa Martina Scantamburlo, funzionario linguistico e rivista con Rita Carnevali, assistente linguistico. Show
Permission to re-publish this translation has been granted by the Italian Ministry of Justice for the sole purpose of its inclusion
in the Court's database HUDOC CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO PRIMA SEZIONE DECISIONE Ricorso n. 29923/13 La Corte europea dei diritti dell’uomo (prima sezione), riunita il 22 maggio 2018 in un comitato composto da: IN FATTO 1. La ricorrente, la sig.ra Anna Maria Cristaldi, è una cittadina italiana nata nel 1963 e residente ad Aci Castello. È stata rappresentata dinanzi alla Corte dall’avv. A. Cariola del foro di
Catania. A. Le circostanze del caso di specie 3. La ricorrente è un magistrato presso il tribunale di Catania. B. Il diritto interno pertinente 14. L’articolo 3, c. 1, della legge n. 27 relativa alle prestazioni in favore del personale della magistratura del 19 febbraio 1981 prevede il versamento di una indennità giudiziaria speciale in favore dei magistrati ordinari italiani, relativa agli oneri da essi sostenuti nell’esercizio della loro attività professionale. C. Il diritto dell’Unione Europea 19. Il 14 luglio 2016, la CGUE, nella causa Ornano contro il Ministero della Giustizia (sentenza C-335/15), ha affermato che le lavoratrici non possono invocare il beneficio delle disposizioni dell’articolo 11, punti 2 e 3, della direttiva 92/85/CEE per rivendicare il mantenimento, durante il congedo di maternità, della loro retribuzione integrale, come se fossero effettivamente presenti sul posto di lavoro, al pari degli altri lavoratori. Secondo la CGUE, occorre dunque distinguere la nozione di «retribuzione» di cui all’articolo 11, punti 2 e 3, della direttiva 92/85/CEE dalla nozione di «retribuzione integrale» percepita quando la lavoratrice è effettivamente presente sul posto di lavoro e che, eventualmente, comprende la speciale indennità giudiziaria, la quale è correlata agli oneri che i magistrati ordinari incontrano nello svolgimento della loro attività professionale. Quando una lavoratrice è assente dal lavoro perché fruisce di un congedo di maternità, la tutela minima imposta dall’articolo 11, punti 2 e 3, della direttiva suddetta non comporta, quindi, il mantenimento integrale della retribuzione dell’interessata. Risulta da detta giurisprudenza che il mero fatto che un magistrato donna ordinario non benefici della speciale indennità giudiziaria durante un periodo di congedo di maternità obbligatorio, a differenza dei colleghi di sesso maschile in attività, non costituisce una discriminazione basata sul sesso, ai sensi dell’articolo 119 del trattato CE (divenuto articolo 141 CE) e dell’articolo 1 della direttiva 75/117/CEE. MOTIVO DI RICORSO 20. Invocando l’articolo 14 della Convenzione in combinato disposto con l’articolo 1 del Protocollo n. 1, la ricorrente lamenta di avere subito una discriminazione. IN DIRITTO 21. La ricorrente afferma che essere stata privata dell’indennità giudiziaria speciale durante il congedo di maternità costituisce una discriminazione indiretta basata sul sesso, in violazione dell’articolo 14 della Convenzione in combinato disposto con l’articolo 1 del Protocollo
n. 1. Queste disposizioni sono così formulate: A. Tesi delle parti 22. Il Governo contesta questa tesi. Per quanto riguarda la doglianza relativa all’articolo 14 della Convenzione, esso sostiene che non vi è stata discriminazione in quanto la legge vigente all’epoca dei fatti prevedeva che tutti i magistrati perdevano il diritto di ricevere l’indennità in questione durante i periodi di assenza per congedo straordinario, congedo per qualsiasi motivo, astensione
obbligatoria o facoltativa. B. Valutazione della Corte 1. Sulla questione di stabilire se i fatti di causa rientrino nelle previsioni dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 28. La Corte rammenta che l’articolo 14 della Convenzione non fa altro che completare le clausole normative della Convenzione e dei suoi Protocolli. Il divieto della discriminazione sancito dall’articolo 14 della Convenzione prevale dunque sul godimento dei diritti e delle libertà che la Convenzione e i suoi Protocolli
impongono a ciascuno Stato di garantire, e si applica anche ai diritti addizionali, nella misura in cui questi rientrano nel campo di applicazione generale di uno degli articoli della Convenzione, che lo Stato ha volontariamente deciso di tutelare. È necessario, ma sufficiente, che i fatti di causa rientrino «nella sfera di azione» di almeno uno degli articoli della Convenzione (si vedano, tra molte altre, Koua Poirrez c. Francia, n. 40892/98, § 36, CEDU 2003 X, e Andrejeva c. Lettonia [GC], n.
55707/00, § 74, CEDU 2009). 2. Sulla natura della dedotta discriminazione 33. Secondo la giurisprudenza consolidata della Corte, la discriminazione consiste nel trattare in maniera diversa, salvo giustificazione oggettiva e ragionevole, persone poste in situazioni equiparabili
(Willis c. Regno Unito, n. 36042/97, § 48, CEDU 2002 IV, e Okpisz c. Germania, n. 59140/00, § 33, 25 ottobre 2005). Tuttavia, l’articolo 14 non vieta a uno Stato membro di trattare dei gruppi in maniera differenziata per correggere delle «ineguaglianze di fatto» tra gli stessi; in alcune circostanze, è anche l’assenza di un trattamento differenziato per correggere una ineguaglianza che può, senza una giustificazione oggettiva e ragionevole, comportare una violazione della disposizione in
questione (Causa «relativa ad alcuni aspetti del regime linguistico dell’insegnamento in Belgio» c. Belgio (merito), 23 luglio 1968, p. 34, § 10, serie A n. 6; Thlimmenos c. Grecia [GC], n 34369/97, § 44, CEDU 2000-IV; e Stec e altri c. Regno Unito [GC], n. 65731/01, § 51, CEDU 2006 VI). La Corte ha anche ammesso che poteva essere considerata discriminatoria una politica o una misura generale che abbia effetti pregiudizievoli sproporzionati su un gruppo di persone, anche se non riguarda
specificamente tale gruppo (Hugh Jordan c. Regno Unito, n. 24746/94, § 154, 4 maggio 2001), e che una discriminazione potenzialmente contraria alla Convenzione poteva risultare da una situazione di fatto (Zarb Adami c. Malta, n. 17209/02, § 76, CEDU 2006 VIII). Per questi motivi, la Corte, all’unanimità, Dichiara il ricorso irricevibile. Renata Degener Kristina Pardalos Cosa succede se il datore di lavoro non paga la maternità?Infatti, il datore di lavoro ha l'obbligo di anticipare l'indennità per conto dell'Inps, che rimane però debitore effettivo della prestazione. Se il datore di lavoro non provvede al pagamento, quindi, anche l'Ente previdenziale vi è tenuto.
Quanto ci mette l'Inps a pagare la maternità?Retribuzione. La prestazione economica di maternità a carico dell'INPS è pari all'80% della retribuzione media globale giornaliera percepita nel mese immediatamente precedente il mese di inizio del congedo (o nel caso di disoccupate o sospese, nell'ultimo mese di lavoro).
Come si fa un ricorso amministrativo all'Inps?COME FARE DOMANDA
online (tramite il Sistema Pubblico di Identità Digitale – SPID almeno di Livello 2 o la Carta Nazionale dei Servizi – CNS) sul sito www.inps.it e utilizzando il percorso “Tutti i servizi” > “Ricorsi Online”; tramite Ente di patronato o altri soggetti abilitati all'intermediazione con l'Istituto.
Quale ente previdenziale tutela la maternità?La tutela della maternità e della paternità spetta alle lavoratrici ed ai lavoratori iscritti alla Gestione Separata INPS, non pensionati e non iscritti ad altre forme previdenziali obbligatorie, in possesso del requisito contributivo previsto dalla legge per finanziare le prestazioni economiche di maternità.
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