La madonna del parto piero della francesca analisi

"Madonna del parto" di Piero della Francesco

Piero della Francesca la dipinse a fresco sul muro dell'altar maggiore di una chiesetta di campagna, nel XV secolo chiamata Santa Maria di Momentana - o in Silva, perché posta fra i boschi della valle del Tevere - al confine tra lo stato di Firenze e lo stato pontificio, presso Monterchi, paese d'origine della famiglia di sua madre. Rettore della chiesa era suo zio. Ciò spiega perché un pittore celebre come Piero, chiamato da papi e sovrani, abbia concesso sette giornate di lavoro a un'opera destinata a un luogo così periferico. E a un soggetto tanto problematico. La chiesetta originaria venne demolita alla fine del '700 e ricostruita mutandone l'asse e la fonte di luce; la pittura è stata staccata, ridotta, più volte restaurata. Danneggiata, dimenticata, separata dall'autore cui fino al 1889 si cessò di attribuirla, venerata dalle contadine dei dintorni, che la invocavano perché le aiutasse a partorire, ha subito peripezie e vicissitudini degne di un romanzo. E' sopravvissuta a due terremoti e al passaggio del fronte durante la Seconda guerra mondiale. E' sempre lì. Arcaica e impassibile come un idolo.  

Arcaica, impassibile, indelebile: la Madonna del Parto

E' un'epifania del sacro. Qui non c'è narrazione né Bibbia illustrata. Piero infatti, con scelta che rinnova radicalmente intuizioni precedenti, cristallizza sulla parete una visione mentale, senza tempo: due angeli, con movimento sincrono, quasi un rituale passo di danza, tirano di lato una tenda e lei si manifesta. Altera e remota, come una statua nei recessi di un tempio. Gli angeli ci fissano con uno sguardo duro, che è insieme un invito alla contemplazione e un monito: non oltre, fermati, questa è la soglia. Hanno volti maschi e corpi senza spessore, come silhouettes di una lanterna magica. I colori degli abiti, dei calzari e delle ali formano una rima baciata: ciò che è verde a sinistra è pavonazzo a destra, e viceversa. Sono identici, speculari - e infatti Piero li ha dipinti con lo stesso cartone, rovesciandolo al momento dello spolvero, quando doveva riportare il disegno sull'intonaco.
Lei, isolata, occupa il centro dell'immagine e li sovrasta. Sembra più alta di quanto non sia (un metro e mezzo). Monumentale, maestosa. E soprattutto, enormemente incinta. Il corpetto dell'abito è slacciato sul ventre gonfio e lungo la cucitura laterale, e lascia affiorare il bianco della camicia sottostante. Quel colore proclama la sua purezza, la sua verginità.
La gravidanza di Maria poneva ai pittori enormi problemi.
Essi dovevano rappresentare la prodigiosa incarnazione del Salvatore nel corpo della madre senza che chi guardava collegasse ciò con la sessualità, di cui sulla terra ogni gravidanza è pesante conseguenza. I pittori bizantini avevano escogitato raffinati simbolismi (la mandorla, il medaglione con l'immagine di Gesù posto sotto il seno della Vergine). I pittori del Medioevo la vestivano d'oro o le mettevano un libro tra le dita, per alludere al Verbo fatto carne. I nordici, più concreti, le aprivano una finestra nell'abito, per mostrare il feto nell'utero. Alla fine, il motivo restava imbarazzante e avevano finito per dedicarvisi solo pittori minori, per opere destinate alla devozione popolare. Accettando (o scegliendo) questo soggetto alla metà del '400, quando ormai era relegato alla periferia dell'arte, accettando (e scegliendo) di creare un'immagine che imitasse la natura nello stile che era già inconfondibilmente suo, Piero della Francesca accettava un'ardua sfida. La vinse. La sua Madonna conferisce divinità alla gravidanza, e umanità alla divinità.
Il semplice abito di panno azzurro, privo di ogni ornamento superfluo, l'acconciatura dei capelli biondi intrecciati con strisce di lino e i gesti sono quelli di una donna qualunque. Di disinvolta naturalezza, perfino rustici: la mano sinistra piegata sul fianco, per riequilibrare il peso, l'altra a carezzare il ventre, per proteggere la creatura e insieme sottolinearne teneramente l'esistenza. La figura, eretta e statuaria, è invece quella di una regina - l'aureola come una corona. Il volto è un ovale dall'incarnato perlaceo, quasi trasparente - delineato dal contorno che valorizza il nitore del disegno. L'espressione, nobile, fiera e imbronciata, è mitigata dalle palpebre abbassate, in segno di modestia. Gli occhi scuri sfuggenti non guardano nulla: è assorta in se stessa. Non è statica e anzi trasmette l'impressione del movimento, perché rompe la rigorosa simmetria della composizione: è di tre quarti, rivolta verso sinistra (là dove nella chiesa c'era una statua lignea miracolosa). Il punto focale del dipinto è il suo grembo pregno. L'ombelico concettuale dell'immagine di Piero della Francesca non è ciò che sta davanti ma ciò che sta dentro. 
Bisogna allora tornare alla tenda. La Madonna che contiene Gesù è infatti contenuta a sua volta. Da un padiglione simile a quello che Piero aveva dipinto poco lontano, nel Sogno di Costantino, ad Arezzo, nella Leggenda della Vera Croce. All'esterno, è di broccato rosso (colore della regalità): si riconoscono ancora sul tessuto i frutti del melograno. Simbolo eterno, già precristiano, di fecondità e resurrezione. All'interno, è foderato con pellicce di scoiattolo, cucite a formare un reticolo. Questa tenda però non è una tenda, ma un tabernacolo. In origine, la Madonna spiccava su uno sfondo di finto marmo scuro, da cui sembrava staccarsi, illusionisticamente ascendendo sopra l'altare. La luce (la cui fonte è nascosta) illumina lei: il punto di massima chiarità è il suo viso. Se gli angeli lasciassero cadere la tenda, piomberesti nel buio. Ti è concessa una visione fugace, un'apparizione improvvisa. E' una di quelle rare opere che con massima essenzialità di forme (un'austera geometria di sfere, cilindri e rettangoli) e di colori (azzurro, rosso, terra, verde, bianco) riescono a rivelare l'invisibile: il mistero dell'incarnazione e di ogni esistenza.

Il fondatore della modernità
"Nessuno più di lui fu mirabile nelle cose della cognizione di Euclide". Piero della Francesca raccontato da Giorgio Vasari nelle sue celebri Vite

Molto sono infelici quelli che esercitandosi negli studii et attendendo il giorno e la notte a descrivere et a dichiarare le cose difficili delle belle arti, per lasciar fama di sé al mondo, o la infermità proibisce loro il dar fine e perfezzione alle onorate e somme fatiche, o sopravenendo la morte, la prosunzione di altrui ruba loro i lunghissimi loro sudori, et attribuendosi l'altrui pregio ricuopre la pelle dello asino con le gloriosissime spoglie del leone. Et avvegna che il tempo che è il padre della verità, o tardi o per tempo la faccia pur ritornare in luce, non è però che in quel tanto non sia defraudato quello spirito virtuoso de la debita gloria sua; sí come tante decine di anni ne è stalo defraudato Pietro della Francesca da 'l Borgo San Sepolcro. Il quale, essendo stato tenuto maestro raro e divino nelle difficultà dè corpi regolari, e nella aritmetrica e geometria, sopraggiunto nella vecchiaia dalla cecità corporale e dalla fine della vita, non possette mandare in luce le virtuose fatiche sue et i molti libri scritti da lui, che nel Borgo, sua patria, a' dí nostri ancora si conservano. E colui, che con tutte le forze sue si doveva ingegnare di mantenergli la gloria e di accrescerli nome e fama, per aver pure appreso da lui tutto quello che è sapeva, non | come grato e fedele discepolo, ma come empio e maligno nimico, annullato il nome del precettore, usurpatosi il tutto, dette in luce sotto nome suo proprio ciò è di fra Luca da 'l Borgo tutte le fatiche di quel buon vecchio. Il quale, oltra le scienzie dette di sopra, fu eccellente nella pittura e molto onorato et amato universalmente al pari d'ogni altro della età sua.
Costui nacque nel Borgo detto, a' dí nostri fatto città, e chiamossi della Francesca, da 'l nome di sua madre, per esser quella restatane gravida quando il padre suo si morí; e per essere stato da lei allevato e nutrito con ogni sollecitudine e diligenzia, perché è potesse venire a 'l grado che la sua buona sorte gli dava, attese Pietro nella sua giovanezza alle matematiche, et ancora che di anni xv fusse in diritto ad esser pittore, non si ritrasse già mai da quelle. Anzi, faccendo mirabil frutto et in esse e nella pittura, fu adoperato da Guidobaldo Feltro Duca vecchio d'Urbino in molti disegni. Laonde acquistatosi in quella corte credito e nome, volle farsi conoscer fuo
E però lavorando et in Pesero et in Ancona, venne la fama sua a le orecchie del duca Borso; il quale chiamatolo a Ferrara, nel suo palazzo gli fece dipignere molte camere, rovinate di poi dal Duca Ercole vecchio per edificarvi a l'uso moderno, di maniera che in quella città non è rimaso di man sua se non una cappella in Santo Agostino lavorata in fresco, e quella stessa per una soverchia umidità assai bene in declinazione. Queste opere lo fecero noto a Papa Niccola V, il quale condottolo a Roma, gli fece lavorare in palazzo due storie nelle camere di sopra, a concorrenzia di Bramantino da Milano; le quali medesimamente furono poi gittate per terra da Papa Giulio II, perché Raffaello da Urbino vi dipignesse la Prigione di San Piero et il miracolo del Cor|porale di Bolsena, insieme con alcune che aveva dipinte Bramantino da Milano, pittore molto eccellente nè tempi suoi; del quale non potendo scrivere la vita o le opere particulari, che per la mala fortuna sua sono capitate male, mi par debito farne almanco questa memoria in testimonio della sua virtú. Straordinariamente ho sentito lodare costui in alcune teste fatte da lui nella detta istoria da 'l naturale, sí belle e sí bene condotte, che la sola parola mancava a dar loro la vita. Et ho veduto in Milano, sopra la porta della chiesa di San Sepolcro, un Cristo morto fatto da lui in iscorto; nel quale, ancora che tutta la pittura non sia piú che un braccio di altezza, egli nientedimanco nella brevità dello spazio ha voluto mostrare la lunghezza dello impossibile con la facilità e virtú dello ingegno suo. Sono ancora di sua mano in detta città, in casa il Marchesino Ostanesia, camere e logge con molte storie lavorate da lui con una pratica resolutissima e con grandissima forza ne gli scorti delle figure. Le istorie sono cose romane accompagnate con diverse poesie. E fuori di Porta Versellina, vicino al castello, a certe stalle oggi rovinate e guaste, alcuni servidori che stregghiavano cavalli, dè quali ve ne fu uno tanto vivo e tanto ben fatto, che un altro cavallo, tenendolo per vero, gli tirò molte coppie di calci.
Ma tornando a Pietro della Francesca, finito in Roma l'opera sua, se ne ritornò a 'l Borgo, per la morte della madre; e nella pieve fece a fresco dentro a la porta del mezzo due santi, che sono tenuti cosa bellissima. Nel convento dè frati di Santo Agostino dipinse la tavola dello altar maggiore, che fu cosa molto lodata, e lavorò in fresco una Nostra Donna della Misericordia ad una loro confraternita; e nel Palazzo dè Conservatori una Resurressione di Cristo, tenu|ta delle opere che sono in detta città e di tutte le sue la migliore. Dipinse a Santa Maria de Loreto, in compagnia di Domenico da Vinegia. E fu condotto in Arezzo da Luigi Bacci, cittadino aretino, e dipinse in S. Francesco la loro cappella dello altar maggiore, la volta della quale era cominciata da Lorenzo di Bicci.
Nella quale sono le istorie della Croce, da che i figliuoli di Adamo, sotterrandolo, gli pongono sotto la lingua il seme dello albero, da 'l quale nasce il predetto legno; sino a la esaltazione di essa Croce, fatta da Eraclio Imperadore, che portandola su la spalla a piedi e scalzo, entra con essa in Ierusalem; dove sono molte belle considerazioni e molte attitudini degne certo di esser lodate. Come, verbigrazia, gli abiti delle donne della Regina Saba, condotti con una maniera dolce e molto nuova; molti ritratti di naturale antichissimi e vivissimi; uno ordine di colonne corinzie divinamente misurate; un villano che, appoggiato con le mani in su la vanga, sta con tanta prontezza a udire parlare Santa Lena, mentre le tre croci si disotterrano, che è non è possibile migliorarlo. Il morto ancora, che al toccare della Croce risuscita; e la letizia di Santa Lena, con la maraviglia dè circunstanti che si inginocchiano ad adorare. Ma sopra ogn'altra considerazione e di ingegno e di arte, è lo avere dipinto la notte et uno angelo in iscorto che, venendo a capo a lo ingiú a portare il segno della vittoria a Gostantino, che dorme in un padiglione guardato da un cameriere e da alcuni armati oscurati dalle tenebre della notte, con la stessa luce sua illumina il padiglione, gli armati e tutti i dintorni, con grandissima discrezione: perché Pietro fa conoscere in questa oscurità quanto importi lo imitare le cose vere, e lo andarle togliendo da 'l proprio. Il che avendo egli fatto benissimo, ha dato cagio|ne a' moderni di seguitarlo e di venire a quel grado sommo, dove si veggono oggi le cose. In questa medesima istoria espresse egli efficacemente in una battaglia grandissima la paura, l'animosità, la destrezza, la forza, gli affetti e gli accidenti eccellentemente considerati in coloro che combattono con una strage quasi incredibile di feriti, di cascati e di morti. Nè quali, per aver Pietro contraffatto in fresco l'armi che lustrano, merita giustamente lode grandissima. Sí come è la merita ancora per aver fatto nella altra faccia della cappella dove è la fuga e la sommersione di Massenzio, un gruppo di cavagli in iscorto, sí maravigliosamente condotti, che respetto a què tempi si possono chiamare troppo begli e troppo eccellenti. Fece in questa medesima istoria uno mezzo ignudo vestito a la saracina, in su un caval secco molto bene ritrovato di notomia, poco nota nella età sua.
E meritò per questa opera che Luigi Bacci, da lui con Carlo et altri suoi fratelli e molti Aretini che fiorivano allora nelle lettere, quivi intorno a la decollazione d'un re tutti ritratti di naturale, largamente lo premiasse e di esser poi sempre e riverito et amato in quella città che egli aveva tanto illustrata. Dilettossi molto costui di far modelli di terra, et a quelli metter sopra dè panni molli, per ritrarli con infinità di pieghe. Fece nel Vescovado di detta città una Santa Maria Maddalena a fresco, allato a la porta della sagrestia; e nella pieve un San Bernardino in una colonna, ch'è tenuto cosa bellissima. Alla compagnia della Nunziata in detta città fece il segno da portare a processione; et a Santa Maria delle Grazie fuor della terra, in testa ad un chiostro, in una sedia tirata in prospettiva, un San Donato; et in San Bernardo, monaci di Monte Oliveto, una figura di San Vincenzo in una nicchia in alto in muro, ch'è di | grandissimo rilievo a tal cosa, che bellissima da gli artefici è stimata. Dipinse a Sargiano, luogo dè frati del Zoccolo di San Francesco fuor d'Arezzo, una cappella dove è un Cristo nello orto che ora di notte, che bellissimo si tiene.
Egli fu studiosissimo nell'arte, e nella prospettiva valse tanto, che nessuno piú di lui fu mirabile nelle cose della cognizione di Euclide, e tutti i miglior giri tirati nè corpi regolari egli meglio ch'altro geometra intese, et i maggiori lumi che di tal cose ci sieno, ci sono di man sua; perché maestro Luca da 'l Borgo frate di San Francesco che sopra i corpi regolari della geometria scrisse, fu suo discepolo. E vedendo in vecchiezza Pietro che aveva composto di molti libri, Maestro Luca facendoli stampare, tutti gli usurpò per se stesso, come già s'è detto di sopra, sí come quello a cui erano pervenuti nelle mani dopo la morte di Maestro Pietro. Lavorò ancora in Perugia molte cose che per quella città si veggono. Fu grandissimo compagno et amico di Lazaro Vasari aretino, il quale sempre la sua maniera imitò, e bonissimo maestro fu tenuto di figure piccole.
Furono discepoli di Pietro, Lorentino d'Angelo aretino, il quale imitando quella maniera, fece in Arezzo molte pitture, e quelle che cominciate aveva Pietro a ultima fine ridusse; come ancora nel chiostro di Santa Maria delle Grazie fuor di Arezzo, vicino al San Donato che Pietro vi lavorò, son le storie di San Donato da Laurentino lavorate in fresco. Dipinse in Santo Agostino et in San Francesco in Arezzo cappelle; e per la città molt'opere similmente, e fuori per il contado fece moltissime figure per aiutare la famiglia sua che era in quei tempi molto povera.
Dicesi che, sendo vicino a Carnovale, i suoi figliuoli lo pregavano che amazzasse il porco, per essere cosí costume in quel paese; e non | avendo Lorentino il modo, lo molestavano què fanciulli dicendo: "Voi non avete danari, padre, come faremo a comperare il porco?" Lorentino rispondeva: "Qualche santo ci aiuterà". Perché lo replicò piú volte, e non comparendo il modo e passando la stagione, pur finalmente venne un contadino da la Pieve a Quarto, che aveva a sodisfare un boto, di far dipignere la imagine di San Martino, ma non aveva altro che un porco il quale valeva cinque lire. Trovò Lorentino e gli disse che aveva a far questa opra, e che altro assegnamento non aveva che 'l porco; perché convenutisi, gli fece il lavoro et egli a casa il porco ne menò, dicendo a' figliuoli che San Martino lo aveva aiutato. Fu suo discepolo un Piero da Castel della Pieve, che fece al Borgo uno arco sopra Santo Agostino, e dipinse in Arezzo nelle monache si Santa Caterina un Santo Urbano Papa, oggi ito per terra per rifar la chiesa. Similmente fu suo creato Luca Signorelli da Cortona, il quale grandissimo onore piú de gli altri gli fece. Furono le pitture di Maestro Pietro Borghese l'anno mcccclviii. Dicesi che per un male di cattarro che gli venne di età d'anni lx accecò, e fino a gli anni lxxxvi sempre orbo visse. Lasciò Pietro nel Borgo bonissime facultà e case ch'egli aveva edificate, le quali per le parti furono arse e distrutte l'anno mdxxxvi. La morte sua dolse molto a' suoi cittadini, che onoratamente lo sepelirono nella pieve, oggi vescovado di quella città; e meritò titolo da gli artefici de 'l miglior geometra che si trovasse nè tempi suoi, per il che forse hanno le sue prospettive piú moderna maniera e disegno e grazia migliori de l'altre. Costui fu investigatore di molti modi brevi, e redusse a facilità quasi tutte le difficultà delle cose geometriche; come apertamente si può vedere per | i libri delle sue compo<si>zioni, conservati la maggior parte nella libreria del II Federigo Duca di Urbino; i quali oltra la fama della pittura hanno arrecato a Pietro nome immortale. Per il che non è poi mancato chi lo abbia onorato di questi versi:

PIETRO DELLA FRANCESCA

Geometra e pittor, penna e pennello
Cosí ben misi in opra; che natura
Condannò le mie luci a notte scura
Mossa da invidia: e de le mie fatiche
Che le carte allumar dotte et antiche,
L'empio discepol mio fatto si è bello.

L'Opera

la Repubblica del 18-08-2013

Se chiudo gli occhi, vedo madonne in trono e fra le nuvole, col Bambino in braccio o poppante al seno, madonne neonate nella camera di Anna, bambine educate dagli angeli, Annunciate timide o spaurite, puerpere tra i pastori, madri straziate ai piedi della croce o col figlio morto tra le braccia, anziane addormentate sul letto di morte, disincarnate mentre ascendono al cielo. Madonne bionde, brune, eteree, formose. Le malinconiche di Bellini, le aristocratiche di Parmigianino, le plebee di Caravaggio. E poi c'è la Madonna del Parto. Indelebile per chiunque - persino oggi, quando la cultura teologica, matematica e umanistica che la presuppone ci è divenuta ignota. La ragione dell'impatto sensazionale dell'immagine dipende dal dettaglio meno immediato: la Madonna del Parto appare.  (Melania Mazzucco)

L'Autore

Piero della Francesca è senza dubbio uno dei più grandi pittori italiani del Quattrocento. La sua pittura spaziosa, monumentale e impassibilmente razionale è senza dubbio uno dei raggiungimenti più alti degli ideali artistici del primo Rinascimento, un'età in cui arte e scienza erano unite da vincoli profondi. Come Leonardo da Vinci, nato due generazioni dopo di lui, Piero fu un grande sperimentatore: grande maestro dell'affresco, tecnica nella quale eccelse, fu interessato soprattutto all'applicazione delle regole recentemente riscoperte della prospettiva alla pittura narrativa e devozionale: l'assoluto rigore matematico delle sue creazioni contribuisce ad esaltare la qualità astratta ed iconica della sua pittura, conferendo ai suoi capolavori una potente valenza sacrale.

«Monarca della pittura» ai suoi tempi - come lo dichiarò il concittadino Luca Pacioli (1494) -, poco dopo la morte la sua opera venne ben presto dimenticata, se si eccettuano il profilo che gli dedicò Giorgio Vasari nelle due edizioni delle sue Vite (1550; 1568) e i ricordi per la sua attività di teorico della prospettiva contenuti in alcuni trattati cinquecenteschi di architettura. La grande stagione della «maniera moderna» con i suoi protagonisti - Leonardo, Raffaello e Michelangelo - fece d'un tratto apparire ad artisti, committenti e collezionisti di un gusto ormai superato tutti i capolavori dei grandi maestri del Quattrocento. Si dovette attendere la riscoperta sette e ottocentesca dei «pre-raffaelliti» perché amatori e storici dell'arte ritornassero a guardare e ad apprezzare le opere del maestro di Sansepolcro: ma sono stati soprattutto gli studi novecenteschi a far riacquistare a Piero della Francesca quel ruolo di primo piano che gli compete nello sviluppo della pittura italiana moderna.

Piero nacque intorno al 1415 a Borgo San Sepolcro: il padre, Benedetto, era mercante di cuoiami e di lane, mentre la madre, Romana di Perino, era originaria del vicino borgo di Monterchi. Sansepolcro era allora un fiorente centro strategicamente collocato all'incrocio tra Toscana, Marche ed Umbria: passato dalla signoria dei Malatesta al controllo dello Stato della Chiesa nel 1431, papa Eugenio IV lo cedette, poco dopo la battaglia di Anghiari (29 giugno 1440), al Comune di Firenze per 25.000 fiorini (20 marzo 1441). Nella città dell'alta val tiberina Piero dovette fare il suo primissimo apprendistato pittorico, insieme al poco conosciuto Antonio d'Anghiari: ma le sue prime opere note manifestano una profonda comprensione dell'arte fiorentina del primo Quattrocento, in particolare della pittura chiara, luminosa e prospettica di Domenico Veneziano. A fianco di questo artista Piero è infatti documentato nel 1439 nel capoluogo toscano, come aiuto per l'esecuzione degli affreschi con le Storie della Vergine per il Coro della chiesa di Sant'Egidio. Anche i capolavori di Donatello e Masaccio dovettero lasciare sul giovane pittore una traccia profonda e indelebile. I riflessi più immediati di questa educazione artistica si ritrovano in una delle opere più antiche di Piero che ci sia pervenuta, il Battesimo di Cristo (Londra, National Gallery), proveniente da Sansepolcro e acquisito dal museo inglese poco dopo la metà del secolo scorso.

A partire dal quinto decennio del Quattrocento la carriera di Piero si svolse alternando soggiorni presso le principali corti dell'Italia centro-settentrionale e nella città natale. Nella seconda metà degli anni quaranta dovrebbe collocarsi la sua attività a Ferrara, dove lavorò per il marchese Leonello d'Este, uno dei più raffinati mecenati del Rinascimento: purtroppo interamente perduti sono gli affreschi che Piero eseguì lì nel Castello estense e nella chiesa di Sant'Agostino. Datato 1451 è invece l'affresco raffigurante Sigismondo Pandolfo Malatesta in adorazione di San Sigismondo all'interno del Tempio Malatestiano di Rimini, rinnovato in forme rinascimentali da Leon Battista Alberti; più tardi Piero replicò il ritratto di profilo del condottiero malatestiano nella tavola oggi al Louvre, concordemente assegnatagli dopo la pulitura e le analisi del 1977. È probabile che nella città romagnola il pittore biturgense abbia stretto delle relazioni proprio con l'Alberti, che dovette incoraggiarlo a perseguire la sua indagine appassionata sulle leggi prospettiche e proporzionali.

Frattanto, nel 1445, i suoi concittadini gli avevano commissionato il grande Polittico della Misericordia (Sansepolcro, Museo Civico), al quale l'artista lavorerà in modo discontinuo, per consegnarlo dopo tante insistenze solo nel 1462: il vigoroso impianto plastico delle figure - di ascendenza masaccesca - è messo in risalto dal rigore astratto della composizione e dal valore luminoso ed atmosferico attribuito persino all'arcaico fondo d'oro. Le scene della predella, probabilmente ideate da Piero, vennero eseguite dal monaco camaldolese fiorentino Giuliano Amedei.

Nel 1452, alla morte del pittore fiorentino ultratradizionalista Bicci di Lorenzo, Piero accettò l'incarico di proseguirne il lavoro nella grande cappella absidale della chiesa di San Francesco ad Arezzo, su commissione della famiglia Bacci. Le Storie della Vera Croce, affrescate in tre registri sovraspposti sulle alte pareti, lo occuperanno in una prima fase fino alla fine degli anni cinquanta, quando Piero si trasferì temporaneamente a Roma (1459), invitato dal papa umanista Pio II Piccolomini per dipingere a fresco alcune scene nei palazzi vaticani, distrutte cinquant'anni più tardi per far posto agli affreschi di Raffaello nelle celebri Stanze. Il ciclo di Arezzo, certamente terminato entro il 1465 dopo il rientro dalla città pontificia, rimane così come una fulgida testimonianza dell'arte di Piero della Francesca nella fase centrale della sua attività ed uno dei maggiori cicli di pittura murale nell'Italia del Quattrocento.

Sin dal 1454 un'altra prestigiosa commissione gli era giunta dai propri concittadini, l'esecuzione del Polittico destinato all'altar maggiore della chiesa degli Agostiniani: ancora una volta il lavoro si protrasse a lungo e il grande dipinto, smembrato già nel Cinquecento, fu consegnato solo negli anni sessanta. Perduta la centrale Madonna col bambino, i pannelli laterali, effigiantiSant'Agostino, San Michele, San Giovanni Evangelista e San Nicola da Tolentino, sono oggi divisi tra diversi musei (rispettivamente Lisbona, Londra, New York, Milano) mentre alcuni elementi della predella sono divisi tra Washington (Sant'Apollonia) e la collezione Frick di New York (due santi agostiniani e la Crocifissione). All'inizio degli anni sessanta risalgono pure la commovente Madonna del parto per la cappella del cimitero di Monterchi e la straordinaria Resurrezione nella Sala dei Conservatori della Residenza (il Palazzo Comunale) di Sansepolcro (oggi sede del Museo Civico), al contempo simbolo civico e sacra icona, che lo scrittore contemporaneo Aldous Huxley ha definito «la più bella pittura del mondo».

Nel 1954 venne ritrovato nella chiesa di Sant'Agostino a Sansepolcro un frammento di affresco con una figura di santo, probabilmente San Giuliano (oggi Sansepolcro, Museo Civico), un'opera di grande eleganza, eseguita con il consueto magistero tecnico probabilmente dopo il ritorno dal soggiorno romano del 1458-59. Ancora discussa è invece la datazione del Polittico per le monache francescane di Sant'Antonio a Perugia (Perugia, Galleria Nazionale dell'Umbria), nel quale ancora una volta Piero riesce a superare le limitazioni dell'antiquato fondo oro impostogli dalle committenti, lasciando libero spazio alla sua genialità nelle belle scene della predella e nel prodigioso tour de force prospettico dell'Annunciazione sovrastante.

Nel corso degli anni sessanta e settanta Piero strinse dei rapporti particolarmente intensi con la splendida corte di Urbino e con il duca Federigo del Montefeltro, per il quale portò a termine alcune delle sue opere più celebri: il dittico con i ritratti dei duchi, Federigo e la moglie Battista Sforza (Firenze, Galleria degli Uffizi), la celebre Flagellazione (Urbino, Galleria Nazionale dell'Umbria), una vera e propria summa delle sue indagini sulla prospettiva, nonché la Sacra Conversazione per la chiesa di San Bernardino (Milano, Pinacoteca di Brera), con il celebre ritratto in armatura del duca Federigo (1472-74): un dipinto rivoluzionario che rompe con la tradizione medievale del polittico a scomparti per proporre il concentrato dialogo tra la Vergine e i Santi in uno spazio prospetticamente unitario e misurabile, in diretto rapporto con lo spettatore.

In questi dipinti dell'estrema maturità, cui si devono aggiungere almeno l'intima Madonna di Senigallia (Urbino, Galleria Nazionale dell'Umbria) e la poetica Natività di Londra (National Gallery), Piero rivela un interesse sempre più profondo per la coeva pittura di Fiandra, che si manifesta nella più complessa tessitura cromatica e nell'osservazione minuziosa della realtà, analiticamente indagata nella sua relazione con la luce.

In questi anni urbinati, stimolato dall'ambiente intellettuale della corte, Piero si dedicò anche alla stesura di alcuni trattati teorici, intesi a ricondurre alla essenziale e misurabile regolarità delle forme geometriche l'infinità varietà degli oggetti naturali. Sono giunti sino a noi il Trattato dell'Abaco, una sorta di manuale di matematica elementare come quelli in uso nelle scuole d'abaco; il Libellus de quinque corporibus regularibus, dedicato a Guidobaldo duca di Urbino e pubblicato da Luca Pacioli dopo la morte dell'artista come opera propria; infine la fatica maggiore, il De prospectiva pingendi, trattato ricco di disegni e inteso come guida pratica alla prospettiva.

Divenuto cieco nei suoi anni estremi, Piero della Francesca si spense a Borgo San Sepolcro il 12 ottobre del 1492.

Dove si trova la Madonna del Parto di Piero della Francesca?

Sito ufficiale dei Musei Civici Madonna del Parto. L'opera tra le più straordinarie ed enigmatiche del Rinascimento è conservata a Monterchi lo splendido borgo medievale della provincia di Arezzo, in Valtiberina toscana.

Come si chiama la Madonna del parto?

La Madonna del parto è un affresco (260x203 cm) realizzato da Piero della Francesca, databile al 1455-1465 circa, e conservato in un museo appositamente predisposto nel comune di Monterchi, proveniente dalla cappella di Santa Maria di Momentana. ... Madonna del Parto (Piero della Francesca).

Quando si festeggia la Madonna del parto?

La festa della Madonna del Parto ricorre ogni seconda domenica di ottobre, giorno in cui si ricorda la Maternità di Maria. Nella chiesa di Sant Agostino, la Vergine con il titolo del Parto è venerata dal XIX secolo.

Chi ha dipinto la Madonna del parto?

Piero della FrancescaMadonna del Parto / Artistanull

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